Da alcuni anni si registra, anche in Italia, una ripresa di interesse per i metodi della formazione. Si tratta di un fenomeno che ha come principale punto di riferimento una grande varietà di pratiche che maturano e si sviluppano (i) in contesti caratterizzati da un legame forte con i processi locali organizzativi e di lavoro; (ii) in una prospettiva di radicale superamento degli schemi ancorati alla tradizione codificata dell’azione formativa; (iii) sulla base di un’idea “allargata” della formazione entro cui assumono una certa rilevanza tanto le attività di consulenza quanto quelle di assistenza tecnica. Questa proiezione verso le dinamiche della vita organizzativa assume nelle visioni emergenti un tratto del tutto nuovo, caratterizzato dall’affermarsi della consapevolezza del fatto che i fattori costitutivi dell’apprendimento sono “segnati” dall’intreccio di due “fattori” cruciali: da un lato, il riconoscimento della centralità della conoscenza e, soprattutto, del fatto che la conoscenza utile è quella che ha origine nelle pratiche degli attori impegnati nelle loro attività; dall’altro, il prevalere di una visione secondo cui assumono nuova rilevanza le dimensioni soggettive, intersoggettive e contestuali dell’apprendere. L’apprendimento trova il suo fondamento nella pratica, nelle relazioni degli attori. In simili condizioni, il rinnovamento della formazione, sul terreno del metodo, deve fare i conti con il dualismo tra insegnamento e apprendimento: il primo è centrato sulla trasmissione verticale di contenuti (saperi, valori, ecc.) da chi li detiene a chi li deve assumere; il secondo, invece, si fonda sulla centralità del soggetto e della sua capacità di ap-prendere dall’esperienza seguendo selettivamente le sue inclinazioni e i suoi interessi. Legati alla logica dell’insegnare, i metodi classici sono anche caratterizzati dalla centralità dell’”aula”, metafora che rinvia alle modalità trasmissive della conoscenza fondate sull’autorità e la gerarchia, sulla riduzione dei soggetti a contenitori, sulla trasmissibilità meccanica del sapere. Il rovesciamento del paradigma dell’aula privilegia la logica dell’apprendere, mette in luce la capacità degli attori di elaborare l’esperienza che diventa la fonte principale di conoscenza. Questa prospettiva scardina i modelli classici della formazione, apre nuove prospettive all’elaborazione metodologica dando luogo ad una grande varietà di metodi che possono essere riassunti dallo slogan “metodi oltre l’aula”. In questo quadro, gli approcci che si sono venuti consolidando sono molti e, pur tra molte differenze, sono tutti riconducibili all’interesse per la promozione dell’apprendere mediante lo stimolo alla partecipazione, il coinvolgimento degli attori implicati, il riconoscimento della loro soggettività, della rilevanza dell’azione e della riflessività in azione. Possiamo etichettare l’insieme di queste modalità di azione formativa come approcci orientati allo sviluppo di pratiche riflessive. L’abbozzo di una prima parzialissima mappa (da arricchire e rielaborare in funzione delle preferenze di ciascuno) muove dall’individuazione di diverse famiglie di metodi che - secondo una sommaria ricostruzione genealogica (almeno per la parte di ragionamento che intendo svolgere qui io) – vede da un lato, gli approcci basati sull’intervento, sulla partecipazione , sull’azione; dall’altro, quelli basati sulla condivisione della pratica in contesti d’azione omogenei (le cosiddette comunità).
Rinviando ad uno dei prossimi numeri della rivista l’approfondimento degli orientamenti basati sull’apprendimento a partire dalla pratica, ci concentriamo in questo speciale di “Formazione e Cambiamento” sul primo raggruppamento di approcci, ossia sulle metodologie d’azione. Appartengono a questa “famiglia” di metodi tutti quegli approcci che fanno riferimento al “modello” della ricerca-azione, il cui orientamento di fondo - dovuto, come è noto, alla formulazione originaria di Lewin - non è tanto legato alla produzione di conoscenza (la quale è legittimata solo dal riconoscimento da parte della comunità scientifica), quanto piuttosto alla produzione della conoscenza specifica che, in un contesto dato, genera cambiamento e che nel riconoscimento sociale del cambiamento realizzato trova la sua legittimazione: nell'azione sono inglobate, potenziate e dotate di senso le nozioni di conoscenza e di cambiamento. La logica del cambiamento costituisce il fondamento teorico e di metodo della ricerca-azione. Gli sviluppi di questo approccio possono essere riferiti ad almeno due indirizzi (1).
Il secondo “modello” è l’action learning, prospettiva elaborata da R. Revans nel 1982 e successivamente ripresa e variamente sviluppata nel quadro di interventi di sviluppo manageriale basati sull’azione. Qui, azione e apprendimento sono indissolubilmente legati. La prima rinvia costantemente al secondo e viceversa, in un processo continuo di alimentazione dato dall’esperienza e dai problemi che essa costantemente genera. L’apprendimento è sempre associato ad una tensione (tra saperi codificati e problemi legati all’azione) che si può superare grazie ad un processo esplorativo caratterizzato da “domande” sulla natura e sulle caratteristiche del problema.
Il terzo modello, la ricerca partecipativa, è legata all’opera di Paulo Freire e alla sua teoria dell’educazione come “liberazione” a partire dalla “coscientizzazione”: la ricerca dovrebbe essere sempre associata a pratiche educative capaci di stimolare la partecipazione degli attori sociali all’analisi e alla conoscenza critica della loro condizione e realizzare così forme concrete di emancipazione. Le più rilevanti applicazioni del modello della ricerca partecipativa sono legate a progetti ed interventi orientati allo sviluppo locale o allo sviluppo di comunità.
Lo “speciale” di “Formazione e cambiamento” approfondisce il tema delle metodologie d’azione per l’apprendimento proponendo all’attenzione dei suoi lettori tre contributi di altrettanti esperti che al tema dell’apprendimento hanno dedicato studi approfonditi.
Giovanni Moretti introduce il discorso della ricerca-azione che, come ho accennato, rappresenta il il “modello” teorico e metodologico da cui derivano tutte le successive elaborazioni ed esperienze di apprendimento basato sull’azione.
Giuseppe Varchetta illustra la prospettiva dell’action learning così come è stata proposta e sviluppata da Revans.
Piergiorgio Reggio, infine, presenta l’approccio della ricerca partecipativa che costituisce il fondamento della concientization come progetto (elaborato e praticato da Paulo Freire) educativo e di liberazione.
1 Non consideriamo in questa sede Il “modello” della “ricerca-intervento” nelle organizzazioni elaborato dal Tavistok Institute di Londra come articolazione dello schema socio-tecnico di analisi e intervento (progettazione) in campo organizzativo. La logica di questo schema è legata agli sviluppi del movimento delle human relations e si basa sull’idea secondo cui la progettazione organizzativa deve tener conto delle dimensioni tecniche e, simultaneamente, di quelle sociali, cioè dei bisogni dei membri dell’organizzazione. La “progettazione congiunta” è realizzata in modo da garantire il coinvolgimento, la partecipazione e la collaborazione dei lavoratori.
Tutti gli uomini per natura aspirano al sapere (Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000), sono in tensione verso la conoscenza e la comprensione. Attraverso la tecnica, la cultura, i miti, le narrazioni e le grandi istituzioni gli uomini, fin dai tempi antichi, hanno cercato di raggiungere una sorta di ‘umana immortalità’ nel tentativo di superare i limiti della loro finitezza esistenziale. L’uomo è l’essere incompiuto che desidera e cerca la compiutezza, tenendo così aperta la dimensione della speranza e della proiezione verso il futuro. L’uomo è un essere che progetta e la cui identità è in movimento e in continua costruzione di sé.
A fasi cicliche l'umana avventura ci chiede conto delle scelte fatte a livello personale e sociale, come pure in campo professionale. In questo breve saggio Piergiorgio Reggio, da anni impegnato nell'educazione di giovani e adulti, prova a rendere ragione di tali cammini. Si confronta così senza più remore con l'esperienza di Barbiana e il suo mito educativo, da lui stesso incontrati e praticati fin da giovane studente. E lo fa a partire dal ricordo dello schiaffo ricevuto ("Venne preso a sberle il nostro conformismo educativo e sociale", p. 9) e dalla provocazione a interrogarsi, ieri come oggi, sul proprio ruolo di educatore, obiettore, genitore, insegnante. Piergiorgio Reggio ci introduce fin da subito nel cuore di questo mito - l'educazione come giustizia - attraverso il fare scuola di don Milani, prima ai giovani operai di San Donato poi ai figli dei montanari del Mugello. Non si tratta di riscriverne la biografia o semplicisticamente riprodurne la pratica pedagogica, magari tradendone lo spirito, quanto piuttosto di tornare a quell'esperienza per attingervi i cosiddetti temi generatori, le istanze di fondo per una nuova prassi educativa critica e creativa. O, come dice Paulo Freire, a cui l'A. compara l'azione milaniana, per imparare a diventare umani, cioè "essere più". Bisogna allora accettare di credere fiduciosamente nella relazione maestro-allievo, per stare insieme non solo "nel mondo", ma anche e soprattutto "col mondo", secondo la felice espressione coniata dal pedagogista brasiliano. Ovvero imparare sempre, ovunque e da chiunque, come lo stesso priore di Barbiana faceva, sforzandosi di aprire i suoi ragazzi alla conoscenza di sé e appunto del mondo, attraverso occasioni di formazione esperienziale (lettura di giornali e lettere, incontri con ospiti o visite di interlocutori esterni, viaggi di lavoro all'estero, ecc.), per poi spingerli a porsi domande e a cercare insieme le possibili risposte circa i motivi profondi che generano ingiustizia e violenza.
Cambiamenti sociali, economici e politici. Nascita di nuovi paradigmi parallelamente al mantenimento di quelli vecchi. Un mondo del lavoro divenuto irriconoscibile a chi lo abita e inconoscibile a chi si appresta ad entrarvi. Tecnologie informatiche e della comunicazione che offrono e tolgono opportunità. Il territorio della formazione è instabile, endemicamente frammentato. Difficile, forse superflua, la sua mappatura. Ma è senz'altro importante tentare di tratteggiarne i contorni tematici a partire dal confronto con chi opera in quel territorio. La formazione vive nel discontinuo, dialoga con nuove pratiche senza l’apparente conforto di una teoria materna e protettiva. Quali sono, allora, i suoi tratti identitari, orientamenti e intenti? è possibile trovare delle risposte, anche incomplete, in poco meno di trecento pagine? Il volume “Nuove parole della formazione” - curato da Domenico Lipari e Serafina Pastore - accoglie punti di vista, prospettive, pratiche tradizionali rinnovate e nuovi lessici nati dalla pratica con scopo di comprendere cos’è e cosa sarà la formazione.