Tutti gli uomini per natura aspirano al sapere (Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000), sono in tensione verso la conoscenza e la comprensione. Attraverso la tecnica, la cultura, i miti, le narrazioni e le grandi istituzioni gli uomini, fin dai tempi antichi, hanno cercato di raggiungere una sorta di ‘umana immortalità’ nel tentativo di superare i limiti della loro finitezza esistenziale. L’uomo è l’essere incompiuto che desidera e cerca la compiutezza, tenendo così aperta la dimensione della speranza e della proiezione verso il futuro. L’uomo è un essere che progetta e la cui identità è in movimento e in continua costruzione di sé.
Ai temi dello sviluppo umano, declinati dal punto di vista dell’apprendimento e della pratica formativa, è dedicato il volume di Gianluca Cepollaro e Giuseppe Varchetta, La formazione tra realtà e possibilità. I territori della betweenness, (Guerini Next, Milano, 2014). Quando Cepollaro e Varchetta ci dicono che viviamo nella tensione verso il possibile ciò significa che l’uomo è portatore innato di questa tensione. Il possibile è tutto ciò che può essere e l’uomo è possibilità data. In quanto portatori sani di questa tensione siamo “abitanti di mondi intermedi”: dal reale che già c’è possiamo sconfinare nel possibile attraverso l’attivazione di nuove connessioni. Il possibile precede il reale perché i suoi confini sono molto più ampi: tendere e aprirsi al possibile significa mettersi in discussione e non darsi mai per conclusi, chiusi, finiti, born and bred.
C’è di più: la nostra natura è intrinsecamente relazionale; siamo biologicamente disposti e pre-disposti a vivere con gli altri. Siamo in continua relazione con il mondo in cui agiamo, con gli altri con cui condividiamo lo stesso mondo e con noi stessi. Io e l’altro siamo un noi, siamo identità relazionali. Una logica relazionale e dialettica governa il movimento di costruzione del sé, l’apertura e la tensione verso il possibile e quindi ogni processo di apprendimento.
L’apprendimento è un movimento permanente, un processo di cambiamento del sé per adattarsi meglio alla realtà, e allo stesso tempo un intervento sulla realtà per adattarla al sé. L’apprendimento non è lineare né solitario, ma è un’esperienza soggettiva, intersoggettiva e relazionale, è “un’emergenza situata temporalmente e localmente, irriducibile e unica” (Cepollaro e Varchetta, cit., p. 62). Se l’apprendimento è un’emergenza, è anche l’emergenza della formazione.
Gli autori mostrano l’importanza e la necessità, per chi si occupa di formazione, di prendere le distanze da un modello di uomo logico-razionale e da un’idea di apprendimento come un atto cognitivo lineare, meccanico e individuale. Nasciamo in un mondo che già esiste, costituito da individui e relazioni. La prima relazione è con il mondo, ed è una relazione che costruiamo e ricostruiamo ogni giorno, in continuo movimento e cambiamento perché è il mondo stesso a esserlo.
L’apprendimento è un “attraversamento di mondi” che richiede una riflessione sull’idea di intermedietà che permetta tale movimento. Uno spazio intermedio tra il riferimento all’esistente e il riferimento al possibile: lo spazio delle relazioni tra un soggetto e un altro, e quello delle relazioni tra soggetto e contesto. L’apprendimento è un attraversamento di mondi perché l’uomo per sua natura è portato a sostare nella “terra di mezzo” tra ciò che è e ciò che può essere. La mente umana è in grado di stare sul confine di più mondi e attraversali in virtù della sua capacità di apprendere riconnettendo esperienze e saperi diversi e pregressi.
La formazione si delinea così come “una pratica di confine caratterizzata da un movimento che tende all’attraversamento di contesti diversi e alla connessione di risorse ed esperienze” (Ibidem, p. 91). Se la formazione è una pratica di confine bisognerebbe chiedersi quali sono le sue Colonne d’Ercole.
Le pratiche formative hanno il compito di creare e attraversare spazi intermedi e di mediazione, per allenare all’intermedietà e al senso del possibile. Le Colonne d’Ercole della formazione possono solo essere le convinzioni dogmatiche, marmoree ed esenti da qualunque forma di critica, ossia l’esito di azioni “conformative” e orientate esclusivamente al risultato.
La formazione deve così orientare le sue pratiche verso i territori della betweenness, quelli cioè della cura, dell’attenzione, della riflessività, dell’ascolto e della narrazione, della creatività e della responsabilità, abbandonando l’idea di completezza, finalismo ed esaustività. Quando Cepollaro e Varchetta sottolineano l’importanza di “assumersi il rischio educativo”, intendono dire che in quanto formatori siamo responsabili dei territori che esploriamo e degli spazi di possibilità che contribuiamo a creare.
“Non ci sono passi avanti da fare ma solo nuovi passi” (Ibidem, p. 165).
Cambiamenti sociali, economici e politici. Nascita di nuovi paradigmi parallelamente al mantenimento di quelli vecchi. Un mondo del lavoro divenuto irriconoscibile a chi lo abita e inconoscibile a chi si appresta ad entrarvi. Tecnologie informatiche e della comunicazione che offrono e tolgono opportunità. Il territorio della formazione è instabile, endemicamente frammentato. Difficile, forse superflua, la sua mappatura. Ma è senz'altro importante tentare di tratteggiarne i contorni tematici a partire dal confronto con chi opera in quel territorio. La formazione vive nel discontinuo, dialoga con nuove pratiche senza l’apparente conforto di una teoria materna e protettiva. Quali sono, allora, i suoi tratti identitari, orientamenti e intenti? è possibile trovare delle risposte, anche incomplete, in poco meno di trecento pagine? Il volume “Nuove parole della formazione” - curato da Domenico Lipari e Serafina Pastore - accoglie punti di vista, prospettive, pratiche tradizionali rinnovate e nuovi lessici nati dalla pratica con scopo di comprendere cos’è e cosa sarà la formazione.
A fasi cicliche l'umana avventura ci chiede conto delle scelte fatte a livello personale e sociale, come pure in campo professionale. In questo breve saggio Piergiorgio Reggio, da anni impegnato nell'educazione di giovani e adulti, prova a rendere ragione di tali cammini. Si confronta così senza più remore con l'esperienza di Barbiana e il suo mito educativo, da lui stesso incontrati e praticati fin da giovane studente. E lo fa a partire dal ricordo dello schiaffo ricevuto ("Venne preso a sberle il nostro conformismo educativo e sociale", p. 9) e dalla provocazione a interrogarsi, ieri come oggi, sul proprio ruolo di educatore, obiettore, genitore, insegnante. Piergiorgio Reggio ci introduce fin da subito nel cuore di questo mito - l'educazione come giustizia - attraverso il fare scuola di don Milani, prima ai giovani operai di San Donato poi ai figli dei montanari del Mugello. Non si tratta di riscriverne la biografia o semplicisticamente riprodurne la pratica pedagogica, magari tradendone lo spirito, quanto piuttosto di tornare a quell'esperienza per attingervi i cosiddetti temi generatori, le istanze di fondo per una nuova prassi educativa critica e creativa. O, come dice Paulo Freire, a cui l'A. compara l'azione milaniana, per imparare a diventare umani, cioè "essere più". Bisogna allora accettare di credere fiduciosamente nella relazione maestro-allievo, per stare insieme non solo "nel mondo", ma anche e soprattutto "col mondo", secondo la felice espressione coniata dal pedagogista brasiliano. Ovvero imparare sempre, ovunque e da chiunque, come lo stesso priore di Barbiana faceva, sforzandosi di aprire i suoi ragazzi alla conoscenza di sé e appunto del mondo, attraverso occasioni di formazione esperienziale (lettura di giornali e lettere, incontri con ospiti o visite di interlocutori esterni, viaggi di lavoro all'estero, ecc.), per poi spingerli a porsi domande e a cercare insieme le possibili risposte circa i motivi profondi che generano ingiustizia e violenza. 